Meglio "fenice" che depresso...

“Sono depresso”… alzi la mano chi ha detto, almeno una volta nella vita, questa frase! Come una saetta il braccio si leva al cielo, non è vero? Questa espressione ricorre di frequente nel linguaggio quotidiano, al pari di altri termini ascrivibili all’area della psicologia clinica e psichiatria quali “paranoia”, “delirio”, “nevrotico”, e così via.

Il termine depressione viene comunemente usato per indicare sentimenti come la tristezza, la delusione, e non ultima la “voglia di non fare niente”. Se davvero il male di vivere si riassumesse in un modo così semplice, allora si potrebbe a ragione concludere che tutti noi siamo malati, nessuno escluso, e destinati alla perenne infelicità in questo mondo, che è solo una valle di lacrime…ironia a parte, si ritiene doveroso distinguere la depressione come patologia, dalla costellazione di emozioni che fanno parte di un’esperienza comune.

Ho la "depressione"? Sono malato?

 

Esistono criteri specifici per poter diagnosticare un disturbo dell’umore che solo un professionista della salute mentale è in grado di identificare. Ogni individuo si trova a dover affrontare, nel corso della propria esistenza, circostanze o momenti carichi di afflizione: senso di inadeguatezza, paura di un fallimento (nei rapporti interpersonali, lavorativi, sentimentali), frustrazione, dolore per la perdita di una persona cara sono ad esempio vissuti con i quali dovremo prima o poi (meglio poi) fare i conti. In quanto esseri umani lontani dalla perfezione, la sofferenza, il dubbio e l’incertezza faranno, nostro malgrado, capolino nel nostro percorso esistenziale.

 

Ma allora, se non è “depressione”, quale sarà il termine corretto per descrivere queste “zone d’ombra”?

Per quanto oggigiorno se ne discuta in chiave strettamente economica,  la crisi interessa anche la mente. Il valore etimologico di “crisi” rimanda alla capacità di giudicare e scegliere, mediata da un’operazione conoscitiva.

In termini psicologici, la crisi segna un momento di rottura, in genere improvviso, di una condizione di equilibrio precedente, e pone l’individuo in una condizione di incertezza, indecisione e disorganizzazione, nell’attesa del ripristinarsi di un nuovo punto di equilibrio, uguale al precedente o diverso.

Tale stato viene vissuto come temporaneo, un momento di passaggio in cui la precarietà segnala la discontinuità rispetto al passato, e conduce ad una reazione di compensazione.

 

L’evento traumatico, che fa da spartiacque tra il “ prima” ed il “dopo”, introduce un cambiamento che costringe l’individuo a ridiscutere la sua posizione ed a rimettersi in gioco, nel tentativo di ricostituire un nuovo ordine interiore e/o esteriore.

Le modalità di reagire sono molteplici, come diverse sono le considerazioni sulle proprie capacità: si può scegliere di non agire perché non ci si sente sufficientemente forti o capaci di affrontare la situazione, perché non si percepisce il supporto degli altri, o perché il mantenimento dello status quo è ritenuto soddisfacente; al contrario può verificarsi una tendenza a cercare quasi coattivamente il cambiamento, per il desiderio di novità, nel tentativo di rimuovere o negare aspetti intollerabili, o per la sicurezza di ottenere vantaggi.

Ecco che riemerge il significato etimologico di crisi come scelta- la scelta- in questo caso, di agire per adattarsi.

 

 

Come uscirne?

Un momento di crisi  può equivalere anche ad occasione, ovvero di modifica di un equilibrio di per sé negativo,  di svolta in merito ad una brutta situazione, o semplicemente di maturazione ed incremento delle proprie potenzialità, fuori dal tunnel che sembra non finire mai.

 

 

Come l’araba fenice (il volatile del mito) risorge dalle sue ceneri, così noi possiamo coltivare la virtù di rinascere dagli eventi destabilizzanti. 

Anche se questo ora può sembrare difficile o impossibile, lo Psicologo può indicare la giusta strada per questo obiettivo attraverso interventi mirati, allo scopo di renderci nuovamente appassionati alla vita ed a tutto quello che può offrirci, aprendo gli “occhi della mente”, poiché gli “occhi per vedere”, in questi casi, non bastano.